Paolo Santarone



Nota biografica

Nato a Milano nel 1942, laureato in lettere, vivo a Daverio, un paesino sulla sponda meridionale del Lago di Varese.
In anni ahimè molto remoti ho svolto un’attività editoriale specializzata in scolastica e ragazzi, e ho scritto vari libri di divulgazione storica, testi scolastici e traduzioni dal latino (Eneide), dal francese e dall'inglese.
Nel ‘74 sono approdato in IBM Italia, occupandomi –a Milano, Roma e Parigi- di comunicazione. Sono stato direttore responsabile di varie pubblicazioni, e in particolare del periodico culturale Rivista IBM.
Lasciata la IBM nel 1988, ho continuato ad operare come consulente di comunicazioni prima in un’agenzia e poi, per oltre 15 anni, con un mio studio.
Sono stato intervistato più volte, su organi di stampa nazionali (Corriere della Sera e Europeo), per una mia specializzazione peculiare: lo speech writing.
Nel 1993 la Fendac (Federazione Dirigenti del Terziario) ha pubblicato un mio saggio, L’Etica del Servizio, scritto a quattro mani con il filosofo Lorenzo Sacconi.
Ho tenuto per vari anni una rubrica di critica socio politica sulla rivista Realtà, della Confederazione Italiana Dirigenti d’Azienda – CIDA, con gli pseudonimi Lazzaro di Betania e Odisseo.
Pur pubblicando assai poco, non ho mai lasciato l’attività letteraria, che è diventata, negli ultimi anni il mio unico impegno.
Nel giugno 2000, sono stato tra i fondatori della rivista telematica Pseudolo - una delle riviste “storiche” di Internet, e da allora sono piuttosto attivo nella rete.
Ho nel cassetto racconti, poesie e un paio di romanzi.


Questa silloge

La prima delle poesie qui proposte è nata come composizione isolata. Le altre fanno parte di un progetto incompiuto che si fondava sul mito poetico della Cerca.
Ho sempre sentito mia l’idea medievale di Cerca (cerca del Graal, ma soprattutto grande metafora dell’assoluto cercare) come aspirazione a tutto ciò che, come persona e anche come poeta, vorrei essere e solo in minima parte potrò mai essere.
Così il novello Perceval è poi in realtà un turista come gli altri, uno che va a guardar le cose con il naso per aria, ma forse con una briciola di consapevolezza in più.
Così sarà un poeta men che minore, che dentro sente una vocazione di grandezza e che fonda la sua Cerca sulla ricerca formale (il lavoro sulle parole e sugli spunti creativi) ma anche sulla ricerca del sé e delle ragioni profonde e inattingibili del tutto (un Graal moderno, insomma!).
Così sarà un cavaliere piccolo piccolo con grandi sogni.






Noi


Per noi
che già eravamo nati
quando Carlo bagnava le sue stanchezze
nei lavacri d’Aquisgrana
mill’anni son trascorsi
in una tepida noia di sconfitte
e d’ideazioni

Per noi
che già eravamo vecchi
quando Cristobal scoprì
la dura fragilità dell’uovo
furon motivo di riso le dissertazioni
dei Domenicani
davanti a quegli esseri strani che uomini non erano
ma pure
con due piedi e due mani
e con chiome piumate
umani parevano in tutto

Per noi
che già eravamo finiti
al sorgere del penultimo secolo
tutto sembrò già visto e già vissuto
Il sangue e la speranza
la fede dell’uomo che cresce
la sua contraddizione
la sua capacità di stupro e tenerezza
e la sua buona e semplice natura
di sapiens o sapiens sapiens
come l’avevamo battezzato

Noi
già tutto sappiamo
dei nuovi mille anni che verranno
già
uno per uno contammo i morti e le invenzioni
glorie e capitolazioni
gli abbandoni di dolcezza
e lo struggimento del tempo

Noi
siamo pietre di cristallo
incistate
nella geologia della storia
e altra voce non abbiamo che l’umidore
che da noi trasuda
nell’algore dei mattini
(umidore che la volpe viene a leccare
all’alba
per dissetarsi nel deserto)

Noi
non conosciamo parola altra che
“essere”
eppure questa parola vestiamo
con costante disperazione
con disperata costanza di suoni e d’invenzioni
per farla udire
per renderla diversa e appetibile
(e almeno un poco ascoltata nel silenzio di quella buia stanza
che separa la panza dal cervello)

Noi
fuori e dentro siamo a un tempo
e
quando la magia riesce
risacca che cresce sullo scoglio
fischio lieve
del vento sulla neve
crepuscolo dell’alba e dei tramonti
luce che discialba la notte
ombra che scende tacita dai monti


Cappella Palatina di Aquisgrana. Trono di Carlo Magno










Istanbul. Santa Sofia



Tre visioni in Santa Sofia


Prologo

Come in una cerca ho vagato
in questo sconsacrato luogo
del divino
Qui
maree che una misteriosa luna attrae
o respinge
risacche che l’onda scaraventa
o ritrae
fede e sangue
s’alternano eterni
nei segni di mani umane
graffiati nella storia delle pietre

Di due dei splendette qui la gloria
ognuno con propri culti
e confliggenti fedi
Qui fuoco e saccheggio celebrarono
l’ebrezza della vittoria
la gloria dello stupro
Qui la clemenza del sovrano guerriero
assoggettato dalla bellezza
impose d’inchinarsi al rispetto

Trepida diligenza d’antichi mosaicisti
che commettevano Cielo e terra
in unico sacro impero
perizia di pittori di parole
che bravamente figurarono il nome
di Colui che non ha figura
ardire d’architetti che sfidarono le leggi
impastando reliquie e cemento
a rafforzare di Dio la fragilità della statica


La prima visione

Un grosso uomo canuto
s’aggira tra i turisti
lo guida un lungo bastone sottile
bianco

Non vede la volta grandiosa
i mosaici
le sacre cerate col nome di Allah

Ascolta non so che cosa
rimbalzi di suoni? silenzi?
annusa l’odore dei marmi
infradiciati di storia

La punta del bianco bastone carezza
la frescura delle pietre
il collo la gola protesa
come in attesa d’un segno

o forse
Dio è più vicino a chi non ha occhi
Lo guida con sussurri


La seconda visione

Incedono sbilenche le due gemelle
identiche
identicamente vestite
un passo sgraziato identico per due vecchie donne

Guardano le colonne
i muri gli affreschi la volta
le geometrie del matroneo
come per un dovere sgradito

Soldati d’un esercito perduto
inermi devastatori
le muove la fretta voglia di essere altrove
vanno veloci nel loro mascolino claudicare

Sono esse lo specchio
il doppio
in questo tempio doppiamente sacro
in questo dualismo di un unico dio
nella Casa che oggi è museo

La santità del Duale
mi passa vicina distratta
accenno un inchino non còlto
non vedono non ascoltano
Mi sfiorano con lieve brezza
e passano oltre


La terza visione

La terza visione è un insetto molesto
Una zanzara
Il ragazzino ronzante
zigzaga in monopattino nel tempio

Con destrezza salta gradini
s’intrufola tra la gente
qualcuno sfiora qualcuno urta
villano e indifferente

Preso dal suo gioco
fa gimcane nel matroneo
circumnaviga sdegnoso l’omphalos
struscia di spalla Costantino il Grande
nell’avventura d’una curva stretta
quasi un testacoda

Questo piccolo vandalo innocente
vive qui dentro come in una casa
gioca qui dentro come in una piazza
figlio d’un malaccorto guardiano forse
o indecifrato segnale d’un misterioso messaggio


Epilogo

Pacificato
ho ritrovato quello che cercavo
il sudore dei marmi
la trasparenza dell’aria
il silenzio

Con minuzia ho osservato le deesis
ho frugato nei volti delle sante
ho carezzato il lucore delle colonne
e respirato i secoli

In più
il dono delle tre visioni
irrisolvibili enigmi
ipotesi di segni

Forse soltanto
sogni ispirati da un dio giocoso
(quale dei due?)
a me che nel mio silenzio cercavo


Santa Sofia. L’interno









Pointe de Raz

Finistère. Finis terrae. Uno dei tanti luoghi
in cui il mondo finisce.
Oppure, se dai le spalle al mare, comincia.

Pointe de Raz. Bretagna


Terra di Francia muore
e declina occidente
uno zodiaco di fari
e qualche vela remota

Più sotto la Baia dei trapassati
dove un tempo le anime dei morti
venivano a raccolta
per affrontare l’Oltre

Gli dei tristi dei calvari bretoni
presso chiese corrose dal lichene
e cimiteri severi
donne senza sorriso

La Cerca nacque qui
dove maree atlantiche
oscillano chilometri
rena alghe molluschi

Da queste sponde
la leggenda di Parsifal
mitologia di sangue
pietà e memoria

Inaudita arroganza dei puri
insostenibile pretesa dei santi
e gloria d’un’impresa
che ha per esito certo il fallimento

Senza animo casto anche oggi
qui s’aggirano uomini
frugano nei bassifondi del tempo
per un lampo d’illuminazione

Nel mio vagare in cerca di metafore
invento le ostinate fantasie
e sogni come spettri
attraverso il mio specchio

Vaneggiando d’aver colto il premio
da uno squarcio di nubi e gabbiani vedo il Senso
L’emozione galleggia
relitto che l’onda irridente ricopre


Bretagna. La Baie des Trépassés vista da Pointe de Raz







Dopo una distratta vacanza


Sul Nilo


Mi sono perso su quel Fiume
come un viandante con il suo bordone
Un mondo color beige creava la tempesta
oltre la breve sponda verde
che divide l’acqua dal deserto
.
Gridavano i ragazzi dalla riva
tra inconsuete vaccine
Le palme piegavano le loro mani
supine
alla pressione del vento
.
Con i calzoni corti e gli occhiali da sole
sul ponte rovente della piccola nave
turista tra turisti cretino tra cretini
a sognare un cammino tra antico e natura
con la formula dell’all inclusive

E si guardava quel che era dato guardare
a volte con un po’ d’irritazione
per la ben panificata gestione del turista
a bocca aperta e macchina a tracolla
a odorare pipì di faraone

Pure anche là
ridicolo Chisciotte
apriva gli occhi al sogno il tuo poeta
E là sono rimasto prigioniero
nostalgia dell’inarrivato

Quieta la Cherry boat
col personale in stile coloniale
carezzava il più magico dei fiumi
e non potevo riconoscermi nel suo torbido
anche se lo avrei tanto voluto

2 commenti:

  1. La poesia di Paolo Santarone si muove lungo due direttrici fondamentali: la cerca, secondo la definizione dell’autore, l’aspirazione all’assoluto, all’essenza, a qualcosa di grave e indefinibile: la ricerca del sé e delle ragioni profonde e intangibili del tutto.
    Tale ricerca prende le mosse dalle radici storiche fondanti del nostro essere occidentali, da Carlo Magno e da Cristoforo Colombo, e ancora prima dalla civiltà egizia , quando a proposito del Nilo afferma:
    - Carezzava il più magico dei fiumi
    - e non potevo riconoscermi nel suo torbido
    La gola protesa dell’uomo canuto col bastone bianco dei ciechi descritto nella prima visione di Santa Sofia è emblematico dell’aspettativa, dell’attesa di un segno.
    Bellissimi gli ultimi versi della prima visione: o forse / dio è più vicino a chi non ha occhi / lo guida con sussurri.
    Intensa di suggestioni anche la seconda visione, con le gemelle sgraziate e claudicanti, metafora del dualismo di un unico dio nella Casa che oggi è museo.
    La terza, il piccolo vandalo innocente, parla forse di noi, piccoli vandali presi dai nostri giochi, intenti a fare gimkane nel matroneo.
    Nell’epilogo infine la pacificazione, la trasparenza dell’aria, il silenzio.
    Nel suo vagare in cerca di metafore ecco la scoperta del Senso, in uno squarcio di nubi, in una improvvisa rivelazione poetica.
    In questa ricerca il tessuto storico è dispiegato come un unico mantello, un insieme non frazionabile.
    Ne deriva un’atmosfera colta, un’aura tuttavia non intellettuale, ma di vera, autentica passione per la ricerca.
    Va dato atto di un incedere che si concede un piglio simpaticamente ribaldo fin dai primi versi con quel – per noi - e poi quel solo – noi – reiterato a contrassegnare i grandi sogni di un cavaliere piccolo piccolo con un ritmo che profuma di gualdrappe e di ricognizioni fantastiche, fuoco e saccheggio ed ebbrezza di vittoria, un incedere dal quale ampiamente filtra la ricchezza di una cultura alimentata da curiosità molteplici e da un variegato ventaglio di esperienze esistenziali.
    La seconda direttrice è uno smaliziato disincanto che prende rifugio in un’arguta ironia, uno sguardo che ridimensiona le aspirazioni all’assoluto nella formula dell ‘all inclusive:
    Con i calzoni corti e gli occhiali da sole
    sul ponte rovente della piccola nave
    turista tra turisti cretino tra cretini…
    e più avanti ancora: ridicolo Chisciotte
    apriva gli occhi a sogno il tuo poeta.
    In definitiva una voce originale che trova il suo nutrimento nella originalità dello sguardo e in una consolidata esperienza letteraria.

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  2. è venuto come autorieditori, in realtà è di paolo polvani

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prova