Background
A Paola
Alla cara
memoria di mia madre
che fin da
bambino mi ha insegnato
le parole
a distinguere
il vero dal falso,
il bene dal
male.
Cinquant’anni di treni e di
stazioni, partenze
e ritorni, labirinti di calli, incerte direzioni,
adesso
qua
a contare i giorni e le ore che vanno via da sole
nella pioggia che cade
fuori e dentro di me.
Cresciuto ad ansiolitici, De Andrè e letteratura
con tutte le parole dimenticate e le mani
gelate, con troppe favole rimaste nelle tasche,
affacciato ancora al solito balcone a guardare
questa notte che sale.
Sempre in bilico tra allegria e ansietà, illusione
e realtà, coi piedi piantati sulla terra e gli occhi
alle nuvole che vanno
a
cercare invano
di sbrogliare questo intrico di rovi
tra ferite e bellezza, con la fede antica
di chi cammina senza alcuna certezza
né verità da poter regalare.
Testardo ancora a viaggiare senza occhiali da sole
né Ipod alle orecchie per ascoltare osservare
senza silenziatore
questo desolato teatro che non mi appartiene
e mi gira attorno, questa sorridente disperata
umanità che si muove in branco
con il
navigatore.
E sono stanco e forse hai ragione tu
forse
è vero
che non sorrido più come una volta,
finito chissà dove quel mio ritaglio di sole
buono a levare dagli occhi un po’
della polvere che s’alza dallo sciagurato
carosello quotidiano, dall’ondata di indifferenza
e ignoranza che monta ogni giorno più forte,
grida ed avvolge di vuoto e tracotanza.
Anche i sorrisi i sogni
hanno una
scadenza.
Peoci (1)
E fussimo boni anca noialtri de far
come fa el paguro che se strassina
drìo un buso de capa
dove ’l se sèra un toco
ransignà e coverto ne la so armadura,
e po’ la mola e ’l se ne ciapa
n’altra più granda, più forte, più bela,
scarsela sicura da le bestie del mar.
Noialtri no, noialtri no semo boni
de molàr cussì quel buso che gavemo
suà ’na vita intiera a tiràr su, massa
ben ghe volemo, s-ciavi de ’na fedeltà
da mone a ’sto toco de piera
che se desfarà,
a quatro strasse de carte
che po’ marsirà.
Femo come i peoci noialtri, i peoci
insensài, tacài duri a ’na piera
sbusada da ani de s-ciafi del mar
che la rosega pian
a spetàr la man che da ’sta crosta
cussì martoriada, senza dir gnente,
la ne cavarà.
Dal treno del mattino
Questa feroce consolazione di andare ogni mattina
a scuola, sei ore da riempire con questo dover fare
pagato vent’anni di precariato, da sette
nei ruoli della pubblica istruzione, graziato
per bontà ministeriale dalla gogna
delle chiamate di salvezza da
aspettare
adesso
su questo treno lento fetente di
stantìo, col cesso
sempre rotto, le carrozze dismesse
rimesse a camminare
da quando hanno privatizzato
tutto
razionale
ottimizzato, questo treno che annaspa e ondeggia
sull’ultimo binario, frenato ad ogni passo a far
passare
le frecce rosse e argento, poi ancora fermo
sul ponte ferroviario
gli operai
della Fincantieri
stanno sui binari, con gli striscioni e i volantini,
hanno
gli occhi tristi di mio padre, le tute ancora blu
e quegli altri arrampicati a
centocinquanta metri
sulle torri gelate della Vinyls
il vento a spazzate li fa
oscillare
e loro stanno là
bandiere della
disperazione
dicono che arriverà una tivù locale,
verrà il sindaco a mediare, a farli ragionare.
Nel vagone adesso la gente s’alza a scatti, occhiate
rabbiose dai finestrini, il treno è fermo da mezz’ora
e noi cosa c’entriamo
noi non c’entriamo
mai niente
se non ci tocca personalmente
noi
bravi sempre
a chiamarci fuori, interruzione di pubblico servizio
e perché la polizia non interviene?
Il vagone è un unico tumulto di idiozia e cecità, un
grumo
solidale di menefreghismo ed ignoranza, qua dentro
s’addensa
il male secolare del paese
il
piccolo italiano
che invoca manganello e autorità, così fratello
al fascista di cent’anni fa
io dico ad alta
voce che quella è gente
in cassa integrazione, mi guardano come un deficiente
vorrei dire di guardare quelle facce, quelle braccia
spese decenni a partorire i giocattoli
della modernità da dover comprare
a
colmare
il vuoto delle case
il nostro inno blasfemo a benessere e inutilità.
Ė quasi un sollievo sentire il cigolio del treno
che ritorna piano ad ansimare
e va
via da là.
Oggi a scuola c’è Foscolo
da spiegare, oggi tocca il sonetto della sera
e io non so
come potrò dire ai miei tredicenni cos’è
davvero questa sera
quest’ombra di silenzio e di
spavento,
la fatal quiete, il nulla eterno che anch’io
sto a guardare dal balcone
e la luna spenta
nella polvere incolore del suo alone
accendo un’altra sigaretta e metto qualche verso
sulla carta
filo più evanescente del fumo
che si allarga nella penombra della stanza.
Dire questo a loro che la sera hanno la playstation
e le partite sul satellitare insieme al padre a gridare
per quel rigore evidente
la madre sola in altra
stanza
davanti alla centesima puntata di chissà quale
storia d’amore travolgente
e il pranzo di
Natale
con gli amici e i parenti nel salotto
abbagliato da lampade al quarzo e divani bianchi
e il quadro di Cascella che è stato
un vero affare
no, io questa sera davvero
non la so spiegare ai miei adolescenti
del nuovo millennio,
con le magliette firmate e l’allenatore,
la faccia incolpevole e beata, la cameretta
col computer personale, le feste, le vacanze assicurate
la vita
perennemente illuminata.
Ha detto ‘negro di merda’
Zanardi, quello della 2C col ciuffo rosso
in testa, che fa il forte e ride
sempre e sfida e sa che non gli succede niente.
In sala insegnanti c’è trambusto, si discute
la sanzione più adeguata, voci basse, sguardi
sfuggenti, d’accordo tutti che il ragazzo è
turbolento
e prepotente, ma non è cattivo, Zanardi
quella frase l’avrà sentita chissà dove
e ripetuta, così
stupidamente.
Non è cattivo, e noi abbiamo il dovere
di capire, di educare, un giorno
di sospensione sembra bene a molti,
un giorno è sufficiente.
Ma Ibrahima non capisce, se ne sta in disparte
con gli occhi lucidi di pianto,
non c’è ragione, non gli ha fatto niente
non capisce Ibrahima
fuggito dal Ghana
da due anni, ha visto la fame ed i fucili,
è allegro, scherza e gioca coi compagni,
qui sta bene, è contento.
Gli piace l’Italia.
Il Consiglio di classe si è riunito, seduta
straordinaria, ha deciso, il Dirigente
ha dato piena approvazione,
è un caso isolato
non bisogna esagerare,
un giorno di sospensione è la giusta
punizione, e chiedere scusa
è più che sufficiente.
Background (2)
Dipende da dove che ti vien, da l’aria
respirada da putèlo, le vose i oci
che te xe entrài dentro e se ga inciodà,
le man indurìe de me pare, le onge col nero
de i feri che no va più via, le so storie
de cavi e ascensori da montar in quela dita
deventada multinazionàl
e l’amigo
cascà
da l’impalcadura, brusà ne la calçe viva,
’na note in bianco e po’ el sciopero e la paura
de perdar el posto.
Dipende da mia mama maestra a vint’ani
ne le campagne de Pianiga, miseria
e litorina a le sie e bicicletta par chilometri
de giasso e sassi, el paltò, sempre quelo,
revoltà e messo a posto
e i fioi de i
contadini,
trentaquatro putèli strucài nel magazèn
co la stùa a carbon, da insegnarghe
a scrivar e contar, a parlar,
e ’na paga che no rivava al vintisete.
Dipende da le case abitàe insieme a èla, oci
che rideva, afito e precariato, magnàr
e bolete da pagar, no ghe xe schèi
’sto mese
par la paruchiera, fa gnente, amor,
ti xe bela lo stesso
fa gnente,
ma queli oci de sol se velava
e la strada tirava in salita.
E la piova che passa i copi roti e riva al sofito,
casca le giosse in camera da leto, ti ghe meti
soto un caìn e ti buti l’ocio a quando
che ’l xe pièn
e restemo in quela casa
in nero e malsana perché l’afito xe bon,
ghe la femo, restemo e sognemo
’na casa megio, un lavoro sicuro, quel viagio
a Parigi rimandà ogni ano a l’ano dopo.
E riva un giorno che ti ghe mòi de sognar, ti te alzi
de note a svodàr el caìn
ti tachi a porconàr
e i sorrisi pian pian se destùa, ti xe stufo
de ’ndar sempre in salita, ti te ricordi
de to pare e to mare
le to raìse impastàe
de amor e fadiga, quel seme duro piantà
tra stomego e cuor, la to vita
el to
specio.
Se va fora dal bar che xe ’ncora note, un café
de furia e fora tuti quanti
a spénte, grumi de ombre infagotàe che se ingolfa
nel calìgo fito che no se vede gnente.
Se speta ingelài el batèlo, vien vanti pian
’na luse zala, tuti dentro, strucài, se impegnisse
ogni buso, tuti serài ne i giuboti de pelo,
co i capèli de lana calài sul muso, se va
nel vodo, çentenera de oci sbassài
che no se incrosa
oci che varda in tera.
Trezento amissi in Facebook e gnanca un can de sera
su le strade de queli che torna casa, qualchidùn
un fià più vero de la foto in bacheca, de tute le
parole
studiàe a far bela figura ne la marea de i dèi
che struca su eventi, inviti, me piase e no me piase,
tuti se saluda, se sbrodola in comenti e complimenti
un’ora do cussì come se fusse sul serio in compagnia
ché basta un clic e se deventa amissi, se fa cambi
de tag e post, musiche e filmeti come da putèli
co le figurine fora de scuola
sonada la
campanela.
Xe tardi, se destùa l’ultima scheda, mile lustrini
colorài bala davanti, do secondi
el schermo deventa da novo tuto nero
fa bip e
tase.
Cettina
Venuta vent’anni fa dalle scogliere di Cefalù aspre
di fichidindia e di vento che odora di sole
e gelsomini in fiore e corre tra rocce
rosse e specchi d’acque luminose
fino a Messina
arrivata
quaggiù
a insegnare matematica e scienze, ai casermoni
del termitaio che avvolge Treviso, grigio
di fumi e di vita.
Una stanza a
pianterreno
uso bagno e cucina, due finestre serrate
da grate di ferro che danno su tre metri quadri
d’erba smorta e cemento.
Per qualche supplenza ogni tanto, un mese sì uno no,
se va bene per tre, un anno intero, meglio
di niente, meglio che star giù ad aspettare qualcosa
ad attendere sempre.
I tuoi riccioli neri, Cettina, solo un poco imbiancati,
i tuoi
occhi miracolosamente capaci di ridere ancora, la tua
giovinezza andata in carte da bollo
e domande infinite, meglio di niente
meglio che star giù ad attendere sempre.
Ti guardo in stazione seduta sulla stessa panchina
scrostata aspettare il tuo solito treno, tornare
alla stanza ammobiliata alla buona
e mi saluti e sorridi e mi dici ‘a domani’.
Ti guardo e conosco sul tuo volto un’antica ferita,
un dolore nascosto
una storia saputa di treni
e valigie, di binari infiniti da fare
e rifare, una storia, Cettina,
che fa
ancora male
che non è ancora finita.
Katia
La trovo ogni giorno alla stazione del treno
per Mestre, il mio stesso binario, al solito orario
a guardare nel vuoto se arriva o porta ritardo.
Una sera di pioggia battente, io e lei soli e
il binario bagnato, l’acqua che cade nel vuoto,
la striscia gialla da non superare.
Mi sorride, mi chiede se ho da fumare
e sorride di nuovo. Viene dal Venezuela,
è qua da vent’anni, infermiera all’Ospedale
di Mestre. Gli occhi accesi sulla pelle d’ambra
hanno lampi di luce
nella pioggia della stazione deserta.
Un figlio da tirar su da sola e non bastano
mille euro al mese a pagare le spese,
affitto e bollette, qua è tutto caro,
il suo stipendio non basta davvero.
Si avvicina e mi dice piano che fa l’amore
a denaro in una casa di Mestre, ogni tanto,
per arrotondare, perché sennò non si arriva
alla fine del mese, solo qualche cliente
da incastrare tra i turni del lavoro.
Mi guarda e sorride di nuovo, anche a lei piace
fare l’amore, non lo fa con tutti, e i soldi li
chiede
alla fine come un regalo, non sta a contrattare,
a contare i minuti, fare l’amore piace anche a lei
veramente.
Si avvicina nella pioggia che cresce, il treno lontano,
dice che qui è pieno di gente cattiva, bigotti sposati
sgarbati e arroganti, vanno spesso da lei, poi
scappano a casa, le buttano i soldi sul letto
ridendo e dicendo ‘puttana’, lei ci sta male
nella foschia appare la luce biancastra del locomotore.
Katia si chiama, nome vero o per professione chissà,
lei adesso è qua col suo bambino, Katia che fa
l’infermiera,
che fa l’amore a denaro con chi le va.
A Mestre, coi turni.
Di necessità.
Pietre e lenzuola
E compro anch’io una cintura da un ragazzo africano,
uno
dei cento della fila distesa sulla Riva di bianche
lenzuola, infinita di fughe e fatica, di rapide
occhiate,
marocchino del Ghana, del Mali o della Costa d’Avorio,
che tu sia libico o senegalese,
tu qui non conti, non importa qui il tuo paese,
qui tu sei marocchino, ‘vu cumprà’ e sai che è
vietato
il tuo mercato di borse marchiate col segno
di Gucci, Armani, di Dolce e Gabbana,
è vietato fermare la gente, fermarsi a parlare,
tu da qua, lo sai bene
te ne devi andare.
Sei iscritto da sempre all’anagrafe degli abusivi,
dei clandestini, battezzato nel gregge degli ultimi
da pietà cristiana
i primi da braccare nella
caccia
quotidiana dell’odio ancestrale che qui si scatena
rabbiosa all’ultimo anello della catena criminale,
quello che non tiene
che ci vuol niente a
spezzare.
E’ vietato e ti do i soldi che chiedi, non voglio,
ragazzo, tirare sul prezzo, mi bastano
i tuoi occhi inquieti che gettano lampi all’intorno
a spiare gli appostamenti,
i segnali dei tuoi nemici
i mastini feroci di voci e di mani
i
miei veneziani.
Tu prendi i soldi veloce e mi tieni forte la mano
che mi fai quasi male, mi fai così bene,
marocchino troppo nero e straniero,
da rimandare alla tua fame da schiavo,
vittima sacrificale del nostro nuovo
antico e globale
impero coloniale.
1
Cozze (dialetto veneziano). Traduzione letterale: “E
fossimo capaci anche noi di fare/come il paguro che si
trascina/dietro un buco di conchiglia /dove si chiude a
lungo/stretto e difeso nella sua armatura/e poi la lascia e se ne
prende/un’altra più grande, più forte, più bella/tasca sicura
dalle bestie del mare./Noi no, noi non siamo capaci/di lasciare così
quel buco che abbiamo/sudato una vita intera a tirar su, troppo/bene
gli vogliamo, schiavi di una fedeltà/da sciocchi a questo pezzo di
pietra/che si disferà/ a quattro stracci di carte/che poi
marciranno./Facciamo come le cozze noi, le cozze/insensate,
attaccati saldi a una pietra/bucata da anni di schiaffi del mare/che
la consuma piano/ad spettare la mano che da questa crosta/ così
martoriata, senza dire niente/ci toglierà.”
2
Background (dialetto veneziano). Traduzione
letterale:”Dipende da dove vieni, dall’aria/respirata da
bambino, le voci gli occhi/che ti sono entrati e si sono
inchiodati,/le mani indurite di mio padre, le unghie con il
nero/degli attrezzi da lavoro che non va più via, i suoi racconti/
di cavi e ascensori da installare in quella ditta/diventata
multinazionale/e l’amico caduto/dall’impalcatura, bruciato nella
calce viva,/una notte in bianco e poi lo sciopero e la paura/di
perdere il lavoro./Dipende da mia madre maestra a vent’anni/nelle
campagne di Pianiga, miseria/e littorina alle sei e bicicletta su
chilometri/di ghiaccio e sassi, il cappotto, sempre quello,
/rovesciato e adattato/e i figli dei contadini,/trentaquattro
bambini stretti nel magazzino/con la stufa a carbone, da
insegnargli/a scrivere e far di conto, a parlare,/e uno stipendio
che non arrivava al ventisette./Dipende dalle case abitate insieme a
lei, occhi/che ridevano, affitto e precariato, mangiare/e bollette
da pagare, non ci sono soldi questo mese/per la parrucchiera, non
importa, amore,/sei bella lo stesso/non importa,/ma quegli occhi di
sole si velavano/e la strada andava in salita./E la pioggia che
filtra dalle tegole rotte e arriva al soffitto,/cadono le gocce in
camera da letto, metti/sotto una bacinella e stai attento a quando/è
colma/e restiamo in quella casa/in nero e malsana perché l’affitto
è buono,/ce la facciamo, restiamo e sogniamo/una casa migliore, un
lavoro sicuro, quel viaggio/a Parigi rimandato ogni volta all’anno
dopo./E viene il giorno che smetti di sognare, ti alzi/la notte a
svuotare la bacinella/cominci a bestemmiare/e i sorrisi lentamente
si spengono, sei stanco/di andare sempre in salita, ti ricordi/di
tuo padre e tua madre/le tue radici impastate di amore e fatica,
quel seme duro piantato/tra stomaco e cuore, la tua vita/il tuo
specchio.”
3
Facebook (dialetto veneziano). Traduzione letterale:
“Si esce dal bar che è ancora notte, una caffè/di fretta e fuori
tutti/a spinte, mucchi d’ombre infagottate che si ammassano/nella
nebbia così fitta che non si vede niente./ Si aspetta ghiacciati il
vaporetto, avanza lenta/una luce gialla, tutti dentro, stretti, si
riempie/ogni spazio, tutti chiusi nei giubbotti imbottiti/con i
cappelli di lana calati sul viso, si va//nel vuoto, centinaia
d’occhi abbassati/che non si incrociano,/occhi che guardano a
terra./Trecento amici in Facebook e nemmeno un cane di sera/sulle
strade di quelli che tornano a casa, qualcuno/un po’ più vero
della foto in bacheca, di tutte le parole/ studiate a far bella
figura nella marea delle dita/che cliccano su eventi, inviti, mi
piace e non mi piace,/tutti si salutano, si sbrodolano in commenti e
complimenti/ un’ora due così come si fosse davvero in compagnia/
ché basta un clic e si diventa amici, si scambiano/tag e post,
files musicali e video come da bambini/con le figurine fuori di
scuola/suonata la campanella./E’ tardi, si spegne l’ultima
scheda, mille lustrini/colorati ballano davanti due secondi/lo
schermo diventa di nuovo nero/fa bip e tace.”
Poesie in italiano si alternano a poesie in dialetto veneziano, a dichiarare un senso di profonda appartenenza, a scavare nelle proprie radici culturali. Come se il disagio avesse bisogno di una lingua materna per essere meglio comunicato, come se volesse tornare al vagito primigenio per dichiarare la sofferenza di stare al mondo. La poesia è immergere la vita nella lingua, levigarla nella corrente delle parole, rispecchiarla in un flusso liquido e cristallino, e più profonda, viscerale l’ansia di dichiararsi estraneo alla realtà che ci circonda, più il ricorso alla lingua della nascita diviene necessario e urgente, diviene devozione e intima adesione. E anche tentativo di salvataggio di un’identità a rischio.
RispondiEliminaRingrazio di cuore Paolo per l'attenzione verso queste mie poesie e per questa nota sull'uso del dialetto. Verissima e profonda. Il dialetto, almeno per me, è davvero lingua arcaica, che riesce - o cerca - a far emergere i moti dell'anima, i sentimenti più intimi, le pulsioni più forti, necessarie. E proprio per questo credo aiuti a dire, forse più e meglio dell'italiano,anche la rabbia, lo smarrimento, l'impotenza e il rifiuto verso questo tempo così distorto, impazzito, vuoto di orizzonti, di punti di riferimento.
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